Figli di un DIA minore

Negli anni ottanta uscì un film di grande successo: "Figli di un dio minore". Parlava di un tipo particolare di disabilità, quella dei sordomuti; tra le tante possibili mutilazioni questa è oltremodo penosa perché toglie all’individuo l’essenza stessa dell’umanità e cioè la comunicazione.

“Figli di un DIA minore” fa il verso a quel titolo con l’evidente gioco di parole del difetto inter-atriale, ma anche con altri significati. Dal momento che si è malati (o meglio da quando si è consapevoli di esserlo dato che tutti siamo, prima o poi, malati), sorge un immenso bisogno di comunicazione. Il malato è il dimenticato da Dio, quello che non ha santi in paradiso e ha bisogno dei suoi simili, prima per essere capito e poi per essere curato. Non vuole solo guarire, vuole essere curato. Spesso deve farlo da solo e ci riesce.

La malattia è quindi una formidabile occasione per conoscere gli altri, a cominciare da quello straniero che abita il nostro corpo difettoso. Un’occasione che i “sani”, i sani immaginari, ovviamente, vorrebbero rimandare all’infinito.

Secondo Aristotele l’uomo è un animale sociale che deve comunicare, nel senso pieno della parola, mettere in comune. Gli riesce bene con simboli e metafore, segni d’arte che vincono il mutismo del dolore e della malattia. Senza malattia non avremmo avuto Leopardi e Emily Dickinson, Cechov e Kafka , Frida Khalo o Michel Petrucciani. Chi sono costoro? Dei malati artisti e non degli artisti malati. Sono difficili e sconosciuti? Allora sentite cosa dice un altro che la pensa così:

Gli occhi non sanno vedere quello che il cuore vede.
La mente non può sapere quello che il cuore sa.
L'orecchio non può sentire quello che il cuore sente.
Ma i miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio
nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.

E’ Jovanotti, non un intellettuale invasato. Difetti piccoli o grandi, Dio maggiore o minore non conta. Qualcuno deve mettere la firma su quell’opera d’arte unica, difettosa speciale e irripetibile che è la vita.

Gabriele Bronzetti

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