Gabriele, un cuore che ha stoffa

La storia di un bambino diventato presto adulto. I suoi pensieri, le sue emozioni e il suo vissuto in questo racconto che vuole dedicare a tutti i piccoli grandi guerrieri come lui

  • Indice

Gabriele nasce nel 1996 con una cardiopatia congenita grave: oggi è un ex piccolo paziente diventato adulto grazie alle terapie mediche, agli interventi chirurgici e alle cure dei professionisti delle Unità Operative di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età Evolutiva dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola.

La diagnosi di cardiopatia congenita

“La prima volta che sono stato operato avevo pochi giorni di vita. Dal 1996 ad oggi ho subito diversi interventi e non è stato facile: la mia è una diagnosi di stenosi aortica severa, ipoplasia del ventricolo sx e fibroelastosi endocardica severa.

Ho un ricordo nitido del Reparto di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età Evolutiva, dove sono stato ricoverato per parecchio tempo: per me era come una bellissima casa piena di bambini e adulti con il camice colorato.
Ho memorie di quel luogo, di quel corridoio, di quel letto di ospedale che non mi lasceranno mai. 

“Vai Gabriele ci siamo quasi”
“Dai Gabriele resisti ancora un pò”
“Gabriele ultimo passo e ci siamo!”
“Gabriele, il tuo cuore ha stoffa!”.

Sono queste le frasi che medici e infermieri spesso mi ripetevano. Ricordo che piangevo spesso, in particolar modo nella fase post operatoria, non riuscivo a prendere sonno, il più delle volte tenevo gli occhi aperti e pensavo. Non mangiavo normalmente come tutti i bambini, perché mi alimentavano con un catetere. Non andavo in bagno, ma utilizzavo un pappagallo.

Sicuramente ho superato difficoltà enormi per la mia età, non sapevo di essere un bambino speciale anche se i medici spesso mi portavano ad esempio. A me interessava solo vivere, cercavo sempre un modo per rialzarmi e combattere, anche quando mi dicevano di riposare”. 

Il conforto delle mamme, super eroine

“Quando ero in Reparto passavo il tempo nella sala ricreativa, giocavo con altri bambini o con gli infermieri che indossavano il naso rosso da pagliaccio. Passavo molto tempo anche nella libreria del Reparto, mi sedevo e leggevo. E camminavo tanto per il corridoio, ero iperattivo e non mi volevo mai fermare.

In certi momenti volevo stare da solo e passavo il tempo sdraiato nel mio letto a pensare: avevo paura, capivo di essere in un momento molto difficile. Così mi capitava di rivivere certi momenti, per me molto dolorosi: pensavo al risveglio dall’intervento, quando disperatamente cercavo un po’ di ghiaccio per trovare sollievo, pensavo ai tubicini inseriti nell’addome e al sangue che fluiva all’interno di questa scatola trasparente rettangolare.

Ma per fortuna c’era la mia mamma. Le mamme sono la nostra forza, sono i nostri supereroi e loro spesso non lo sanno”.

“Ci siamo qui noi”

“Mia mamma ogni giorno andava nella piccola cappella dell’Ospedale per pregare.
Pregava perché tutto questo finisse presto, perché io potessi tornare a sorridere, a correre, a vivere una vita normale come gli altri bambini.

Purtroppo non è stato così. Sono cresciuto in fretta dentro l’ospedale, sono diventato adulto molto presto. Ma con il tempo ho capito che potevo cambiare quel destino e ho deciso di mettermi in gioco.

A 13 anni ho subito un altro intervento a cuore aperto, credo il sesto o il settimo. Ricordo che ho aperto gli occhi e ho visto tantissime luci sopra di me, che scorrevano veloci sulla mia testa come i lampioni che osservi dal finestrino di un treno. Ho capito poco dopo che ero sdraiato sul lettino, nel corridoio all’uscita della sala operatoria: c’erano i miei genitori, che mi guardavano e mi dicevano “Ci siamo qui noi”.

Siamo tornati in camera: ero completamente fasciato, avevo punti e bende su tutto il torace, sui fianchi e nell’addome. Avevo molta sete ma non potevo bere. Così è iniziata la mia lunga degenza in Reparto, controllato con attenzione dai medici e dagli infermieri.

Ricordo la caposala, Cristina: un vero e proprio angelo, bionda, con un bel sorriso e il camice blu.
Lei, in quei giorni, mi ha accudito come se fossi suo figlio, mi aiutava ad addormentarmi e correva quando avevo bisogno. Questo è un ricordo che mi porterò dentro per sempre”. 

Gabriele, sei stato un leone!

“Sei stato un leone”.

Mi ha risposto così, il dottore, quando gli ho chiesto se fossi stato bravo. È un altro dei ricordi forti che mi porto dentro, quando mi hanno rimosso i tubicini dei drenaggi: un passo davvero difficile, ero terrorizzato, avevo paura. Ho urlato, ho pianto, avevo il naso rosso, gli occhi pieni di lacrime e la voce rotta.

Ho chiesto al dottore se ero stato bravo perché ho vissuto quel passaggio come un test, una sfida personale in cui volevo misurarmi e capire fino a che punto sarei potuto arrivare.

Dopo quel momento è iniziata la mia riabilitazione: un periodo lungo e complesso dove tutto dipende dalla forza di volontà che tu, come paziente, ci metti. Volevo uscire, respirare l’aria fuori. Ho camminato per tanto tempo lungo il corridoio del Reparto, cercando sempre di spingermi un po’ oltre e alla fine dopo tanta sofferenza ci sono riuscito.

Uno dei ricordi più belli di quel periodo? Poter mangiare qualcosa di solido: la purea di patate, che da quel momento è diventato uno dei miei piatti preferiti”. 

Il rientro a casa, una vita nuova

“Terminata la riabilitazione sono stato dimesso: ricordo ancora l’ultima volta in cui ho percorso quel corridoio per uscire fuori, lasciandomi alle spalle un periodo molto triste, doloroso e traumatico… che mi porto ancora dentro ma che è passato.

Quando sono uscito mi sono accorto subito della luce, del sole, del verde intorno, degli alberi altissimi, ricordo i camioncini che portavano i pacchi in giro da un padiglione all’altro, e il cemento dell’ingresso di quella che per tanto tempo è stata la mia casa: l’Ospedale.

Finalmente aveva inizio la mia libertà! Finalmente potevo tornare nella mia città, a Reggio Calabria.

Quando sono entrato a casa mia ho provato emozioni fortissime: volevo piangere e sorridere al tempo stesso. Ancora non ci volevo credere, stavo vivendo un sogno chiamato … vita!

Mi sono detto: Gabriele è tutto vero, ce l’hai fatta, sei vivo!

Quando sono arrivato mi hanno accolto tutti con gioia: zii, cugini e amici stretti! Ricordo che mio zio mi ha regalato una fiorentina, perché adoro la carne, i miei cugini tanti giocattoli. Tutto piano piano è tornato alla normalità e finalmente ho iniziato a vivere. Ci sono stati momenti però in cui facevo davvero fatica a crederci”. 

Cosa mi ha insegnato la malattia

“Oggi sono cresciuto, mi sento diverso, ma il “vecchio Gabriele” c’è ancora. Il piccolo guerriero che è dentro di me si sta riposando dopo una lunga battaglia durata tanti anni.

Questo guerriero mi ha insegnato tanto: mi ha fatto capire le piccole bellezze della vita come una passeggiata al parco, in mezzo alla natura o vicino al mare, un’uscita con gli amici, un aperitivo, una pizza, i sorrisi e gli scherzi che si fanno tra amici e parenti.

Ho imparato a vedere le persone al di là del loro aspetto fisico, del loro abbigliamento o carattere. Ho imparato a studiarle nel profondo e ad aggrapparmi a quel granello di speranza per capire se esiste del buono in ciò che a volte può sembrare, agli occhi di tutti, marcio.

Oggi sono una persona coraggiosa, piena di vita e voglia di vivere”. 

L’associazione Piccoli Grandi Cuori

Piccoli Grandi Cuori è nata negli stessi anni in cui sono nato io, la conosco sin dal principio.

Non smetterò mai di ringraziare questi angeli caduti dal cielo per salvarmi, il dott. Gargiulo e il dott. Donti, e l’associazione per tutto quello che ha fatto e sta facendo per le famiglie, i bambini e tutto l’Ospedale. Insieme siamo una forza inarrestabile.

Spero che testimonianze come la mia possano dare forza ai bambini di oggi, ai piccoli guerrieri che ogni giorno combattono con malattie sempre più conosciute ma altrettanto sconosciute. Vorrei che il mio racconto arrivasse nelle sale dei reparti di cardiochirurgia pediatrica, vorrei che lo leggessero le famiglie.

Voglio dare un messaggio di speranza, perché è questo quello che i pazienti come me desiderano, in particolar modo se sono bambini, ed è quello che cercano anche le famiglie. Io lo so, lo so bene.

A questi bambini, che come me crescono con una cardiopatia congenita diventando adolescenti e adulti, voglio dire questo: cercate di avere grinta, tenacia, caparbietà, cercate di dare il massimo, di essere determinati in ciò che volete fare e che fate.

Cercate sempre il buono in tutto e di essere positivi in ciò che accade nel meraviglioso percorso della vita. Trovate sempre la via più semplice e sicura ma allo stesso tempo non abbiate paura di vivere delle avventure, come andare al luna park e salire sulle montagne russe.

Cercate di vivere al massimo la vostra vita e rendetela ricca di ricordi, emozioni ed esperienze. Fate tutte le esperienze possibili. Vivete, ridete e sognate.

La vita è una. Il piccolo Gabriele lo sa bene, l’ha scoperto molto presto”.