Cure Palliative Pediatriche, intervista a Silvia Sgarzi

Cure Palliative Pediatriche, intervista a Silvia Sgarzi
Silvia Sgarzi, 32 anni, bolognese, è infermiera presso l’Alta Intensità dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, al padiglione 23 dove si trova il nostro Reparto. 

Silvia grazie alla nostra associazione si sta formando presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa con un Master di primo livello in Cure Palliative Pediatriche, per essere ancora più pronta a rispondere alle esigenze dei suoi pazienti: i bambini con cardiopatia congenita e le loro famiglie.

Il valore complessivo del Master è di 4.000 euro e abbiamo scelto di sostenere questa spesa perché crediamo tantissimo nell’importanza delle cure palliative per migliorare la qualità della vita del paziente, in questo caso pediatrico, e dei suoi familiari. 


Abbiamo chiesto a Silvia di raccontarci la sua esperienza. 

Silvia, in che cosa consiste la formazione che frequenti? 
Si tratta del Master in Cure Palliative Pediatriche, fa parte dell’offerta formativa dell’Università di Bologna. Si rivolge a quelle figure sanitarie che, ad esclusione del medico, interagiscono con le persone malate: gli infermieri soprattutto ma non solo, anche i fisioterapisti, gli psicologi, i logopedisti che scelgono di svolgere la loro professione nel campo delle cure palliative. 

A che punto sei del tuo percorso di studi? 
Ho iniziato il master nell’aprile 2023 e terminerò nel novembre 2024. Al momento sono partita con il tirocinio, che svolgo presso diverse sedi: andrò a Como, ad esempio, presso la Casa di Gabri, che accoglie bambini la cui complessità è talmente grave da rendere impossibile e impensabile una domiciliazione, sono bambini i cui bisogni complessi afferiscono alla sfera delle cure palliative. 

Perché hai scelto le Cure Palliative Pediatriche? 
Perché amo le sfide. E perché credo fortemente in questa frase: inguaribilità non significa incurabilità. Non possiamo pensare che un bambino inguaribile non possa essere curato. Se le Cure Palliative Pediatriche non possono guarire il bambino dalla sua malattia, si prendono però cura della sua sofferenza e di quella dei suoi familiari, dei suoi bisogni: curare non come “cure” ma come “care”. Dobbiamo considerare il significato di palliativo: non significa che non è risolutivo, o peggio ancora inutile. Questo approccio di “care” ha come obiettivo il controllo del dolore e della sofferenza, il miglioramento della qualità della vita e del benessere del paziente nel suo complesso, l’attenzione nei confronti della sua fragilità e della sua vulnerabilità durante la malattia alla fine della vita, una fragilità che aumenta quanto più il bambino malato è in una condizione di dipendenza, ospedalizzazione. 

In Italia c’è un gap culturale sulle Cure Palliative Pediatriche?
Verissimo. C’è un gap anche tra noi operatori, non tutti sanno cosa sono, perché esistono, a chi sono dedicate. La legge sulle Cure Palliative Pediatriche c’è da un po’ (legge 38/2010, che sancisce il diritto e l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) ma è ancora embrionale. In Italia le Cure Palliative Pediatriche sono ancora affiancate solo al fine vita, e per lo più alle persone adulte e ai pazienti oncologici. Nelle Cure Palliative Pediatriche e nel concetto di inguaribilità sono invece incluse, al di là delle patologie oncologiche, anche le cosiddette patologie life-threatening dove c'è invece possibilità di guarigione, ma anche la possibilità di morte precoce se la terapia curativa fallisce quando ad esempio c’è un’insufficienza d’organo, e qui vi rientrano alcuni dei nostri casi. 
 
Come mai hai scelto di dedicarti ai bambini e ai pazienti con cardiopatia congenita? 
Ho sempre lavorato con i cardiopatici, prima nel 2015 con gli adulti, presso l’Hesperia Hospital di Modena, poi in Alta Intensità Bologna e dal 2017 presso la rianimazione cardiochirurgica pediatrica, al padiglione 23. È stato amore a prima vista, per la tipologia di paziente: le situazioni sono molto diverse l’una dall’altra, è vero, ma alla base c’è sempre lo stesso: il fatto di nascere con una cardiopatia congenita. In rianimazione vediamo i bambini che escono dalla sala operatoria e stanno da noi fino a che hanno bisogno di supporto emodinamico, ventilatorio, di monitoraggio invasivo che è possibile fare solo presso la Terapia Intensiva. Non vediamo solo il post operatorio ma anche l’acuto e le emergenze come possono essere l’arresto cardiaco, oppure i berlin heart (cuore artificiale per i bambini in attesa di trapianto di cuore). 

Il paziente pediatrico non è mai solo: c’è sempre la famiglia che fa parte del contesto.
Esattamente. I genitori arrivano con un bagaglio importante sulle spalle: per molte famiglie è una storia che inizia dalla diagnosi prenatale, queste mamme e questi papà arrivano con una storia di malattia già dalla gravidanza, la sfera psicologica è molto complessa ed è proprio in questa complessità che queste persone ci danno così tanto e ci fanno capire quanto sia prezioso e importante il nostro lavoro. È chiaro che in Terapia Intensiva la relazione non può essere vissuta come in Reparto, con tempi più distesi: qui da noi i tempi sono molto stretti, a volte i momenti sono acuti, però basta quel poco a darti così tanto. È molto importante, nel nostro contesto, la presenza delle psicologhe dell’associazione che sono a disposizione del paziente, della famiglia e anche del personale medico sanitario. 

C’è altro che desideri aggiungere, Silvia? 
Vorrei rinnovare i miei ringraziamenti all’associazione, per il sostegno e per la fiducia. Colgo l’occasione anche per sottolineare quanto sia importante il lavoro fatto da Piccoli Grandi Cuori con il Progetto Pareti: un ambiente colorato, e accogliente, in questo caso la Terapia Intensiva Cardiologica, è molto importante: non solo per i bambini al loro risveglio, e per i genitori che entrano a salutarmi, ma anche per noi operatori che trascorriamo il nostro tempo di lavoro all’interno. 
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