Essere infermiere: la storia di Samantha

Essere infermiere: la storia di Samantha

In occasione della giornata internazionale dell'infermiere, che ricorre oggi, abbiamo incontrato Samantha, Rosanna e Gabriele: tre dei “nostri” angeli che ogni giorno si prendono cura di noi in Reparto. 


Samantha e quella dissidenza che le ha dato coraggio e l’ha portata dov’è ora, Gabriele che si commuove quando parla dei suoi piccoli pazienti, Rosanna dal fortissimo istinto materno con cui cura e accudisce ogni bambino come fosse suo.
Li abbiamo incontrati, per conoscere le loro storie. 


Samantha dal Lago d’Iseo, dove è nata, è venuta a Bologna nel 1999 per inseguire il suo sogno insieme al marito. La sua “storia” di infermiera nasce nel 1995: oggi è coordinatore tecnico infermieristico della Cardiologia Pediatrica e dell’Età Evolutiva al Policlinico di Sant’Orsola IRCCS a Bologna, e anche degli ambulatori. “Abbiamo scelto questa città perchè Milano, dove io e mio marito lavoravamo, era troppo fredda. Con la cartina in mano, ha vinto Bologna perchè una città bella, pragmatica. E l’Ospedale S.Orsola più di tutti mi ricordava il Niguarda dove ho lavorato” ci racconta.

Perchè hai scelto di fare l’infermiera? 

“Fin da bambina lo desideravo. Questo mio “bisogno” di curare, di assistere, è iniziato quando ero piccola ed è legato alla mia storia personale. Ricordo che quando tornai a casa dopo l’appendicite, in quinta elementare, allestii una specie di ambulatorio per Cicciobello: gli infilavo l’ago, la flebo, e avevo inventato un sistema per deviare l’acqua della flebo in modo che non cadesse per terra, altrimenti mia nonna mi sgridava. Curavo tutti: cani, gatti, animali, bambole. Sono sempre stata molto curiosa, in ospedale osservavo attentamente i medici e gli infermieri per imparare dai loro gesti. Mia nonna è stata la mia musa ispiratrice: lei mi ha insegnato che nella vita non bisogna arrendersi mai. Mio nonno invece, voleva che lavorassi in banca: il giorno del concorso da bancario mi sono iscritta a quello da infermiere. Per un po’ non mi ha parlato, poi si è arreso. Sono sempre stata una dissidente”. 

Come sei diventata infermiere pediatrico? 

“La mia prima esperienza la feci a Brescia, in oncoematologia pediatrica. Fu splendida, intensa ed arricchente. Ma anche molto dolorosa, perchè a qui tempi erano poche le possibilità di sopravvivere per questi bambini. Ero giovane e alle prime armi: ho messo in gioco tutto, mi sono “bruciata” in un’esperienza con un bambino e la sua famiglia. I bambini malati sono speciali, hanno una sensibilità differente, una percezione della vita diversa anche in tenera età. E questo mi colpii tantissimo. Dopo quell’esperienza ho fatto medicina scolastica nelle scuole, un periodo di leggerezza dove ho esplorato la relazione di cura e di educazione sanitaria, poi sono passata alla Clinica Mangiagalli in terapia intensiva neonatale, c’erano neonati pretermine di anchedi quattro etti, fu un’esperienza molto interventistica. Ho sempre amato la parte pediatrica e la parte di emergenza legate al mio lavoro, sono quelle che mi appassionano di più. Ma tutte le mie esperienze lavorative mi hanno aiutato, ricordo quella nei centri psico sociali e nelle residenze protette psichiatriche: mi hanno aiutato a comprendere il confine tra normalità e malattia, un confine davvero sottile. Un giorno uno dei miei pazienti storici mi ha chiesto “ma tu sei davvero un operatore?”. Pensai di aver fatto goal: ero riuscita a mascherarmi così tanto con il paziente da entrare nel suo spazio protetto. Operatore e paziente che si confondono: quello era il mio modello”. 

Raccontaci del tuo reparto. 

“Sono qui come coordinatore da giugno 2020, ma già dal 2000 al 2016 ho lavorato in questo reparto come infermiera. Ricordo ancora quando andai a visitare il padiglione 21, dov’era allora la Cardiochirurgia pediatrica: sono arrivata come nona infermiera in mezzo ad otto “mostri”, Maria Cristina Mazzari, Angelo Lillo, Nadia Grandi, e grazie a loro ho imparato tantissimo. Incontrare il dott. Frascaroli è stato come vedere la luce in una stanza buia, l’ho osservato attentamente e ho cercato di “rubare” tutto quanto possibile dalle sue mani, dalle sue parole. L’aria che respiri in questo reparto è talmente ossigenata che ti gira la testa”. Amore a prima vista quindi? 

“Questo reparto è un “contenitore” completo, racchiude tutto. O lo ami, o scappi. Ogni paziente è diverso dall’altro, per età e per cardiopatia: quindi devi essere in grado, oltre alle competenze tecniche, di cambiare stile e modalità di relazione più volte nella stessa giornata. Ci vuole molta adattabilità: nella diade bambino-mamma o ci sai entrare o altrimenti è un casino. E devi saper osservare, attentamente, perchè qui dentro fa la differenza. Io sono una gran rompiscatole, ma dico sempre che qui dentro non si può solo andare, bisogna correre. Il bambino “ti frega” se non hai uno sguardo allenato, se non hai la capacità di osservarlo attentamente e di capire quando sta male. Nel nostro lavoro di infermieri, quello che dai ti viene restituito immediatamente: la coccola fatta ad un bambini, il prelievo fatto con tutti gli accorgimenti possibili per non fargli male, la parolina sussurrata in rianimazione. Siamo spettatori privilegiati, al primo posto nel teatro della vita di quella famiglia.  E’ meraviglioso quando una mamma arriva e ti dice grazie. E quando ci sono delle situazioni molto complesse, mi ripeto a voce alta “Ce la possiamo fare Samantha”. 

Come vi supporta Piccoli Grandi Cuori nel vostro lavoro?  

“Ci aiuta tantissimo con il supporto psicologico e socio assistenziale, che va a vantaggio non solo delle famiglie, ma anche di noi infermieri stessi. Il  lavoro che fanno psicologhe e assistenti sociali è fondamentale e si integra su misura all’interno del reparto, a seconda dell’esigenza del paziente e della sua famiglia. Senza di loro non potremmo sicuramente andare avanti, senza Piccoli Grandi Cuori non esisterebbe nemmeno la cardiologia pediatrica come la conosciamo noi. Al di là del supporto anche “materiale” che ci danno, penso al giardino, alla sala giochi, ai doni e alle iniziative, il loro sostegno forte e costante ci consente di lavorare al meglio. Quando una famiglia ha accesso in Reparto mi interfaccio immediatamente con Simona, l’assistente sociale: lo stesso accade quando si trova al Polo dei Cuori, ci scambiamo di continuo informazioni per approcciare al meglio la situazione. Si lavora in squadra, questo caratterizza da sempre la cardiologia pediatrica”. 


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